da gadamer il mer feb 11, 2015 1:11 pm
L’aspetto errato dell’impostazione di questo ben noto dibattito consiste nell’appellarsi alla legge di più alto livello per giustificare comunque un diritto che trova in concreto, nella società, limitazioni ben precise nel mondo del lavoro, delle professioni, degli incarichi pubblici ecc. Si pensi ai doveri di riservatezza in capo a tutti i lavoratori dipendenti o ai medici, agli avvocati, ai magistrati, ai militari e così via.
La questione ruota attorno all’aspetto ibrido dell’AIA-FIGC. Si tratta di un’associazione e quindi, vista a questo riguardo, un socio s’iscrive e liberamente accetta le limitazioni che lo statuto prescrive.
Se vuole godere di piena libertà di espressione lo può fare in qualità di cittadino ma fuori dall’associazione.
Ma, detta così, sarebbe una semplificazione, una scorciatoia ideologica.
Nei fatti AIA-FIGC si configura anche, per certi versi, come un datore di lavoro, come soggetto unico titolato a consentire l’esercizio di alcune attività organizzate e retribuite.
Se voglio giocare a calcio o arbitrare in competizioni ufficiali devo passare necessariamente attraverso l’associazione. Nulla di che, non potrebbe essere diversamente, pena l’anarchia.
Tuttavia, ripeto, non se ne può fare una questione di dichiarazione di principio assoluta, dei diritti dell’uomo o di costituzione, è un’impostazione ideologica e giuridicamente scorretta. Persino il dipendente di più basso grado non ha pieno diritto di dire, diffondere e commentare quello che gli pare (e nei limiti del codice) riguardo a cose aziendali che conosce. Se poi pensiamo che un certo dovere di riservatezza, giuridicamente fondato, permane anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, abbiamo un esempio pratico di come sia suggestivo ma improprio appellarsi a un diritto che assoluto non è affatto.
Ora la riflessione che s’impone riguarda non tanto l’aspetto se AIA possa (in senso giuridico) limitare la libertà d’espressione degli associati perché è pacifico che questo potere sia legittimo, quanto nell’individuare sino a dove possa spingersi, anzi sino a dove si è già spinto.
Ora, opinione personale ma che ritengo piuttosto condivisa a leggere i commenti, è che abbia sconfinato. Non tutto ciò che è legittimo sempre è anche lecito, soprattutto in presenza di un disequilibrio palese fra la tenuta di un comportamento opacissimo, ai limiti dell’omertoso da parte della struttura e la pretesa di un rigore monastico da parte degli associati, quasi da loggia segreta. Rigore che peraltro finisce per essere inevitabilmente disatteso da tanti associati, mediante un dissenso espresso in maniera non perseguibile ma ugualmente visibile come avviene su questo forum. Asimmetria controproducente: quanto più il laccio è tirato, tanto più vien voglia di toglierselo.