L’ARBITRO DELL’ULTIMA FINALE MONDIALE SI CONFESSA: «IN CAMPO CI VOGLIONO CARATTERE E DIALOGO. L’IMPORTANTE È SENTIRSI UN ATTORE NON PROTAGONISTA»
«Il segreto per un arbitraggio di successo? Considerarsi un attore non protagonista». Nestor Fabian Pitana – il direttore di gara argentino che ha arbitrato l’ultima finale mondiale e stasera riceverà a San Siro la terza edizione del prestigioso premio Giulio Campanati – l’attore lo ha fatto davvero: alla fine gli anni Novanta, in un film dal titolo un po’ così, La Furia, in cui interpretava un agente penitenziario. Ma ha fatto anche il bagnino e il professore di educazione fisica, prima di diventare arbitro a tempo pieno. «Ne ha dimenticato uno: buttafuori in discoteca, quando ero giovane e palestrato». Col fisico che ha, potrebbe scendere in campo ancora per molti anni, anche se da tre mesi lotta con la lesione di un tendine. «Decidessi io, per tutta la vita, anche su una sedia a rotelle». Lo incontriamo in un elegante hotel nel cuore del quadrilatero della moda. Ha appena inviato un audiomessaggio al giovane Riccardo Bernardini, l’arbitro romano che ha rischiato la vita per un pestaggio («Non mollare, non dargliela vinta, verrò a trovarti presto»), e sta per andare a incontrare i colleghi della sezione milanese al Centro sportivo Saini. Un arbitro di successo, una celebrità in patria, sposato a una ex modella che talvolta lo fa finire nelle pagine di costume («Ma non so cosa siano i social, non ho nemmeno un profilo»), e corteggiato dalla politica che lo vorrebbe deputato. «Me lo hanno chiesto, ci sto riflettendo, se potessi fare qualcosa di utile per la mia provincia...».
Pitana, ma è vero che lei si chiama Nestor Fabian come il cantante di tango argentino e suo fratello Roberto Carlos come il celebre cantante brasiliano?
«Verissimo, io lo devo a mio padre, Roberto a nostra madre. Siamo di Posadas, capoluogo della provincia di Misiones, zona al confine con Paraguay e Brasile, terra di influenze culturali, anche nella musica...».
Ha giocato a basket fino a un certo livello, una volta ha detto che si ispirava a Dennis Rodman, non proprio uno che ha fatto del rispetto delle regole la sua filosofia di vita...
«Ma è stato un grande giocatore, e poi secondo me nella vita bisogna essere un po’ matti».
Con queste premesse, che tipo di arbitro è lei?
«Direi un arbitro di carattere, ma molto attento al dialogo. Una caratteristica che solitamente i calciatori mi riconoscono».
Il più difficile da arbitrare?
«Veron, forse perché avevamo un carattere simile».
E il più gentiluomo?
«Tanti, se facessi qualche nome dimenticherei qualcuno. Ma guardate che anche i calciatori si sono elevati, hanno cambiato mentalità, protestano molto meno di un tempo».
Facile con la Var.
«Uno dei meriti della tecnologia».
La Var è un’amica o una rivale degli arbitri?
«Gli amici del direttore di gara sono gli assistenti e il quarto uomo. La Var è una seconda chance da cogliere per minimizzare gli errori. Senza esagerare, ma con la disponibilità a rettificare la propria decisione».
Dice bene lei, il Var Irrati le ha salvato la finale mondiale, facendole concedere il rigore alla Francia...
«Irrati è un chirurgo del Var. Un’ottima persona e un grande professionista».
Cosa invidia agli arbitri italiani?
«Lo stile. Inconfondibile, un marchio di fabbrica. Cambiano gli arbitri, ma lo stile resta».
La sudditanza psicologica esiste?
«Cioè se nel dubbio non prendi una decisione contro la squadra più forte? Non dico che non esista, ma non dovrebbe».
Segue il nostro campionato?
«Ho iniziato con il Napoli di Maradona, negli anni Ottanta, grazie alle prime tv via cavo. Oggi più che le partite guardo le prestazioni dei miei colleghi. E quando finiscono gli mando dei messaggi. A Valeri, Rocchi, sono tutti miei amici».
Fonte:
La Gazzetta dello Sport del 17/11/18 pag. 6